Pearl Harbor Foto: Reuters
Pearl Harbor Foto: Reuters

Sulle isole Hawaii ottanta anni fa ci si godeva una bella mattinata festiva. Era domenica e anche i marinai della portaerei Oklahoma e delle altre navi con stanza nel porto di Pearl Harbor si stavano godendo le prime ore di quella giornata, destinata a diventare una delle date fondamentali della Seconda guerra mondiale.

Alle 7.55 oltre 350 aerei giapponesi si sarebbero avventati sulle principali basi navali americane nel Pacifico, mentre a Washington erano ancora in corso i negoziati tra Stati Uniti e Giappone. Un attacco inaspettato, quindi, che proprio a Pearl Harbor portò alla perdita maggiore con 2400 morti, tra militari e civili, 1178 feriti, 12 navi da guerra affondate, compresa la Oklahoma diventata poi simbolo di questo evento che sancì, dopo la dichiarazione di guerra di Hitler agli Stati Uniti l’11 dicembre, l’entrata nel conflitto degli USA. Il presidente Roosvelt disse che il 7 dicembre sarebbe per sempre rimasta la data dell’infamia, per quello che restò ancora per decenni un trauma profondo per gli Stati Uniti, che si videro attaccati a casa propria, senza alcun preavviso.

Dal 2015 grazie allo sviluppo delle tecniche di analisi del Dna registrato in questi ultimi decenni, il Pentagono ha deciso di portare avanti un programma di identificazione dei 388 morti sconosciuti sui 429 uccisi sulla portaerei Oklahoma, sepolti nel cimitero di "Punchbowl" a Honolulu. Il programma terminato proprio a ridosso di questo anniversario, in sei anni ha visto un attento confronto tra i resti di questi soldati senza nome e cinquemila campioni di Dna di parenti e ha portato a dare un nome a ben 355 delle vittime, chiudendo forse definitivamente questo capitolo della storia americana.

Barbara Costamagna