Foto: AP
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Il pomeriggio di quell’11 settembre del 2001, insieme a Svetozar Rackov ed Alberto Cernaz, stavamo ultimando il giornale radio delle 15.30. Il lavoro era praticamente finito, quando arrivò un lancio che diceva che “un aereo si era schiantato su una delle Torri Gemelle a New York”. Chiesi a Rac di “fare due righe da mettere in fondo al GR”, commentando che adesso ci sono anche i cretini che con i loro aerei da turismo non riescono a evitare i grattacieli. “Fare due righe da mettere in fondo il GR” divenne tra me e Rac il sinonimo della notizia del giorno.

Poco dopo cominciarono ad arrivare le immagini della torre che bruciava e qualche minuto dopo si vide un altro aereo che si schiantava sull’altro grattacielo. Non ricordo sino a quando andammo avanti quel giorno e nemmeno quante edizioni straordinarie del Giornale radio facemmo. Fino a quel momento quello che era accaduto era inimmaginabile e quello che fu subito chiaro è che nulla sarebbe stato più come prima.

Era l’attacco al cuore dell’occidente e a quella che, per dirla con Madeleine Albright, era, sino a quel momento, la “nazione indispensabile”, quella che aveva fatto le guerre degli altri. Fu il momento in cui, mentre molti nel mondo arabo e negli stati islamici festeggiarono il crollo delle torri, negli Stati Uniti cominciarono a chiedersi: “perché ci odiano così tanto?”. Immediatamente il concetto di libertà venne sostituito con quello di sicurezza e presto si cominciò una nuova stagione di guerre americane, che andarono dall’Afghanistan all’Iraq.

Oggi ci siamo lasciati alle spalle due stati falliti e dall’Afghanistan ce ne siamo andati con la stessa eleganza con cui gli americani lasciarono il Vietnam. Quello che è certo è che in vent’anni di guerre non ci si è premurati molto di capire l’islam, il mondo arabo e di rispondere a quella semplice domanda: “perché ci odiano così tanto?”. Le previsioni su quanto tempo ci avrebbe messo Kabul nuovamente a cadere nelle mani dei talebani sono la prova più evidente del fallimento. Molti in tutto questo vedono il declino americano e un futuro dove il ruolo cinese sarà sempre più forte. Intanto chi non c’è sulla scena è l’Europa, affannata a occuparsi di se stessa, che vista da Washinton, Kabul o Pechino non è altro che uno splendido museo.

Stefano Lusa