Foto: Facebook/Edizioni Stampe Triestine
Foto: Facebook/Edizioni Stampe Triestine

A giudicare dalla prima presentazione pubblica de “Il silenzio dei ricordi: l’esodo in Istria”, Katja Hrobat Virgolet sembra avere capito di più degli italiani in Slovenia e dei loro traumi, di quanto ne sappiano loro stessi. Uno racconto duro, una anatomia di un territorio e di una comunità lacerata e ridotta al silenzio.

Se la narrazione dominante è quella del fascismo, della migrazione volontaria degli italiani e della slovenità della costa, un ricordo individuale diverso fatica ad uscire, va a finire nell’oblio della memoria e tirarlo fuori è difficile, faticoso e traumatico. In una zona, come la nostra, ossessionata dalla storia Katja Hrobat Virloget non si occupa di storia, ma di far parlare chi non ha voce. La Hrobat usa intenzionalmente la parola esodo, perché se ad andarsene sono centinaia di migliaia di persone quella non poteva essere altro che una “libera scelta” a cui si era costretti. Per l’autrice gli italiani rimasti hanno dovuto avere più coraggio di quelli che se ne sono andati, hanno dovuto accettare di adattarsi, di imparare una nuova lingua e di diventare stranieri a casa propria. Fu più facile nelle campagne, dove le identità erano più mobili, mentre fu più traumatico nelle città, che prima si videro arrivare persone bilingui e poi dopo il 1954 sloveni che non si sono mai preoccupati di imparare l’italiano. Una nuova realtà con usi e costumi cancellati, con festività religiose sparite e con nuovi abitanti che più che vivere con il mare si limitarono a vivere accanto al mare.

In un territorio con identità fluide, gli sloveni e i croati che se ne andarono con l’esodo divennero italiani e molti italiani che rimasero divennero sloveni o croati, alcuni per scenta altri con l'iscrizione forzata in scuole non italiane. In sintesi, quello che il libro ci racconta è che il mondo non è in bianco e nero e che a seconda dei punti di vista e dei ricordi ci sono vittime e carnefici diversi.

Una prima presentazione, fatta a Sant’Andrea, un paesino un tempo compattamente sloveno, alla periferia di Gorizia, che diventò zona di insediamento degli esuli nel dopoguerra. Un pubblico sbigottito ed infastidito è sembrato dire all’autrice che sarebbe stato meglio occuparsi di quanto accaduto agli sloveni e che loro comunque hanno sofferto di più.

Stefano Lusa