Oggi l’Europa celebra se stessa. Oggi siamo qui a fare il bilancio di un processo iniziato dopo la guerra per prevenire altre guerre. Per avvantaggiare il commercio di merci e la mobilità delle genti. Ma oggi abbiamo gli occhi annebbiati dalla pandemia, così come qualche anno fa erano annebbiati dalla crisi economica che aveva riattizzato i mai sopiti nazionalismi di questo agglomerato irrequieto che si chiama Unione europea. Nel bilancio annuale che per protocollo si fa e si continuerà fare di questo mastodonte geopolitico ci sarà sempre una grande dose di bottino negativo di incertezze, di debolezze che fanno presagire il peggio, e cioè la dissoluzione di un’idea fenomenale: l’ integrazione di tutti i popoli europei. Lo stiamo vedendo in questi mesi di pandemia globale, quando anche nella disperazione si cercano i distinguo e non siamo capaci di articolare un dolore comune e un’ azione comune per uscirne insieme. Per me e per la mia generazione il momento più luminoso nella storia dell’ UE è stato il grande allargamento del 2004, quando la vecchia Europa abbracciò la nuova, quella uscita dal blocco comunista. Seguirono, per noi genti di frontiera, la caduta dei confini, la sensazione di vivere in una casa più grande, la moneta unica, che ci ha fatto dimenticare i contrabbandi degli anni jugoslavi. Oggi la pandemia ha azzerato tutto. Ma non ha azzerato il nostro desiderio d’Europa. Aspettiamo che la pandemia passi e si porti via le cattive intenzioni di chi potrebbe essere tentato di sfruttarla per tenere in piedi le barriere con il terrore. Siamo fiduciosi, anche oggi, durante le pesanti giornate di maggio del nefasto 2020, come lo eravamo nel 1870 quando Victor Hugo scriveva: verrà un giorno in cui non vi saranno campi di battaglia al di fuori dei mercati che si aprono al commercio e degli spiriti che si aprono alle idee. Buon fine settimana.

Aljoša Curavić

Foto: Promocijsko gradivo/EPA
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