Ex Palazzo Longo Foto: Radio Capodistria/Aljoša Curavić
Ex Palazzo Longo Foto: Radio Capodistria/Aljoša Curavić

Le pietre che vedete nella foto che accompagna questo articolo, sono ciò che resta di Palazzo Longo, un palazzo rinascimentale che fino a qualche settimana fa ornava, sia pure massacrato dall’incuria del tempo, una di quelle calli del centro di Capodistria che ricordano tanto le calli veneziane, come è ovvio.

Alle spalle di chi ha scattato la foto delle pietre, c’è l’ ormai tristemente noto grattacielo della Tomos, un ecomostro senza vita che già negli anni sessanta del secolo scorso , quando venne costruito per ospitare gli operai della fabbrica Tomos, era un mostro, una sorta di vezzo fuori luogo, voluto dai rivoluzionari comunisti in spregio all’ antica forma di una città che si vantava di essere l’ Atene dell’ Istria.

Il grattacielo che non vedete, e che tutti a Capodistria fanno finta di non vedere, anche i croceristi, e queste pietre che condivido con voi attraverso il mio smartphone, sono il simbolo di questa città, da oltre mezzo secolo contesa tra un potente impulso autodistruttivo e una altrettanto potente iperattività in senso urbanistico.

Difatti, a Capodistria non mancano ne’ rovine ne’ idee di rinascita architettonica. L’ ultima, in ordine di tempo, è l’ idea di una grande torre di acciaio alta 111 metri, che dalle pendici del monte San Marco, sotto il rione di Semedella, si ergerebbe verso cime siderali, inclinata sopra il mare , sopra l’ ex dormitorio degli operai della defunta Tomos, sopra le pietre del defunto Longo, sopra le nostre teste allibite ed estraniate. Fantastico! Fantastico anche il nome appiccicato al progetto: Capo Grande. Chissà, forse avranno pensato a Capo di Buona Speranza. Altro mare, altro continente, altri spazi: lontani anni luce dalle piccole e claustrofobiche insenature e baie alto adriatiche.

L’ idea, smaccatamente preelettorale, è del sindaco Boris Popovič che, a mio parere, è il più degno e fantasioso erede di quei rivoluzionari autolesionisti e iperattivi che stravolsero la cittadina istriana. L’ idea di Capo Grande può anche piacerci, se non altro per non dare corda agli eterni e alquanto ipocriti e partigiani detrattori dell’ iperattivo sindaco, che qualche mandato fa scardinò la nomenclatura comunista della città mettendone in crisi la fragile intellighenzia. Quell’ intellighenzia, per intenderci, che un po’ di tempo fa inscenò ore e ore di sit-in di protesta per una piccola loggia rinascimentale prospicente piazza del Duomo, che qualcuno voleva comperare per imbastirci qualche attività e che adesso, invenduta, rimane desolatamente vuota ad ornare il niente. Quell’intellighenzia che non fiatò nemmeno un alito, figuriamoci se le venne in mente di mettersi in sit-in, quando rubarono la tabella del vecchio toponimo italiano dell’ odierna piazza Tito. Per la cronaca, stiamo ancora aspettando la posa dei vecchi toponimi. Dunque, dicevo, che l’ idea di Capo Grande è anche attraente, pur sapendo che rimarrà un’ idea nel regno delle idee, o forse proprio per questo. Ciò che però ci spiazza è la didascalia che dovrebbe accompagnare questo miracolo architettonico della modernità alto adriatica slovena e italiana (al progetto ci ha messo le mani anche un architetto italiano), e cioè: “monumento dedicato alla convivenza in Istria”.

Dispiace dirlo, ma è un‘ idea già defunta, come la rivoluzione socialista.