Tutto sta procedendo molto rapidamente, forse troppo, e forse proprio per questo la crescita del valore e dell’uso delle criptovalute viene seguito con molta prudenza, e a volte con diffidenza, dalle istituzioni finanziarie tradizionali.
Non fa differenza Coinbase, una sorta di mercato delle criptovalute, o piattaforma di scambio di beni digitali per definirla in modo più preciso, che si è quotata in borsa ottenendo subito una valutazione al di là delle attese degli stessi vertici della società.
Nella prima giornata di quotazione i mercati l’hanno valutata una cifra difficile perfino da immaginare, 100 miliardi di dollari, raggiugendo in una sola seduta il valore della banca d’affari Goldman Sachs, e avvicinandosi rapidamente al valore di fondi come Blackrock, finendo all’esordio all’ottantesimo posto fra le prime 500 società quotate a Wall Street.
Il primo a gioire è stato senza dubbio il Ceo e co-fondatore della società Brian Armstrong, che di colpo è entrato nel club esclusivo delle 100 persone più ricche del mondo, con 21 miliardi di dollari di patrimonio, pari alla sua quota nella società, ma anche i 1700 dipendenti di Coinbase, che si sono ritrovati improvvisamente più ricchi di 36 mila dollari, pari al valore delle azioni intestate ad ogni dipendente da parte della dirigenza.
Tutto questo nonostante la sfiducia ancora palpabile che circonda il mondo delle criptovalute, fino poco tempo fa universalmente ritenuto uno strumento speculativo e spesso anche utilizzato per transazioni poco chiare. Lo stesso presidente della Fed Jerome Powell ha liquidato la performance di Coinbase ricordando che le criptovalute “non sono attivamente utilizzate come strumento di pagamento e sono strumenti speculativi, come l’oro”. Ancor più duro l’ex ministro dell’economia italiano ed esperto di finanza internazionale Giulio Tremonti che, intervistato dal Sole 24 ore, riferendosi alla giornata di debutto di Coinbase, ha detto che “hanno quotato il nulla certificato dal nulla”.
La diffidenza peraltro è reciproca: lo stesso Armstrong ha detto chiaramente che “la regolamentazione è un pericolo per le criptovalute”, e l’obiettivo nemmeno tanto nascosto delle società che gestiscono questi strumenti è la disintermediazione, escludere grandi fiondi e le banche dalle transazioni dei cittadini, un po’ come hanno fatto i social con l’informazione tradizionale.
Rimane però il fatto che prima o poi, più prima che poi, anche la finanza tradizionale dovrà fare i conti con le criptovalute, e in parte li sta già facendo: fondi importanti come Blackrock hanno ormai preso contatto con le criptovalute, e il Bitcoin, la criptovaluta più conosciuta, viaggia ormai su quotazioni altissime ben superiori ai 60 mila dollari, e viene scambiata anche su piattaforme largamente utilizzate come PayPal. Anche i governi stanno ormai programmando il lancio di valute elettroniche: la Bce progetta il lancio dell’euro digitale in cinque anni, un passo che la Cina ha già fatto anche se in condizioni mercato completamente diverse e principalmente per tenere sotto controllo anche questo mercato sul proprio territorio.
Rimangono però tutti i dubbi, per non dire i rischi, legati a strumenti di cui ancora non si conosce l’impatto sull’economia reale, con una valutazione che va ben oltre il fatturato e il patrimonio reale (anche se non sono le uniche società in questi condizioni, basti pensare a Tesla o ai colossi dell’informatica), ma che soprattutto sfuggono ai controlli delle autorità finanziarie, e di cui non sono noti nemmeno i meccanismi e i nomi dei responsabili: tutti elementi che dovrebbero spingere ogni investitore o cittadino che voglia avvicinarsi al criptomondo a un’estrema cautela.

Alessandro Martegani