Salvador Allende. Foto: Jan Konečnik
Salvador Allende. Foto: Jan Konečnik

Un passato che sembra non passare. A cinquanta anni dall’11 settembre 1973, quando in Cile si compì un violento colpo di stato contro il governo in carica, con a capo il socialista Salvador Allende, che quel giorno si tolse la vita per non consegnarsi ai militari guidati dal generale Augusto Pinochet, il paese, nonostante gli sforzi fatti dopo il ritorno alla democrazia, sembra non aver ancora superato la contrapposizione tra coloro che appoggiarono il golpe e quelli che invece quel giorno videro tradite le loro speranza.

Rapiti, torturati, uccisi, spariti, i numeri della strage perpetrata dagli aguzzini sui concittadini cileni durante la feroce dittatura del generale Augusto Pinochet (1973-1990) sono impressionanti, ma ancora oggi non definitivi. Secondo le più recenti cifre della Commissione della Verità e Riconciliazione, sono oltre 31.000 le vittime di violazioni dei diritti umani durante la dittatura cilena, con 2.125 morti e 1.102 sparizioni riconosciute.

Molti anche gli esuli che dovettero lasciare il paese, che oggi ricorda questi tragici eventi con manifestazioni che vedono dopo mezzo secolo i cileni divisi tra coloro che pensano che quel giorno Pinochet e i suoi salvarono il paese da una dannosa deriva comunista e quelli che piangono Allende e la morte del suo sogno socialista, che congelò la democrazia in quello che divenne un laboratorio del liberismo in salsa Chicago boys e un baluardo del controllo statunitense sull'America latina, che stava entrando in una fase di dittature che segnarono in modo definitivo l'evoluzione di quest'area del mondo.

Barbara Costamagna