Foto: Facebook/Edizioni Stampe Triestine
Foto: Facebook/Edizioni Stampe Triestine

La Hrobat in questo studio fa parlare chi nella società slovena non sembra aver avuto voce. Un libro destinato a creare dibattito, polemiche e malumori in un territorio, come quello di Capodistria, Isola e Pirano, con un’identità schizofrenica e difficile.

“Difficilissima. Prima di tutto c'è un grande vuoto. La presentazione del libro a Nova Gorica -racconta la Hrobat- mi ha fatto pensare, perché anche questa è una città nuova. Potremmo dire che pure Capodistria, Isola e Pirano sono delle città nuove: non fisicamente nuove, ma con una completa ricostruzione degli abitanti dopo la Seconda guerra mondiale”.

La differenza è che Nova Gorica ha raccolto una classe intellettuale, un’élite culturale locale, mentre qui restarono quelli che stavano ai margini della società.

“Sì, rimasero quelli che erano ai margini della società. L’élite italiana se ne andò perché non poteva più esprimere l'identità italiana e per altre ragioni veramente complesse. Di sicuro a Nova Gorica c'era una élite slovena ed una élite slovena venne mandata anche qui, con il compito di creare una nuova identità. La missione era di slovenizzare il territorio, in questo contesto nemmeno il dialetto sloveno era gradito. Qui non era rimasto che il 10% della popolazione italiana originaria, perlopiù nell’entroterra. Le città si erano praticamente svuotate”.

Questo libro nasce da 53 interviste, fatte nell'arco di 10 anni. Moltissime persone, però, non hanno voluto accettare di parlare con lei, altri hanno risposto col silenzio. In qualche modo il silenzio dice più delle parole.

Questa è la mia conclusione. Ho raccolto molte storie di vita, ho fatto più di 53 interviste, molte non le ho trascritte, poi c’erano quelle fatte dei miei studenti. La più grande difficoltà è stata il silenzio: moltissimi - specialmente italiani - hanno rifiutato di parlare con me. Forse perché sono una ricercatrice slovena, forse perché il mio italiano è quello che è, ma penso che sia accaduto soprattutto perché appartengo ad una nazione che non ha mai mostrato empatia per gli italiani. Poi ho capito che c’era il silenzio anche tra gli italiani: parlare dell’esodo e di cosa accadde dopo l’esodo era un tabù. Se non ne parlavano nemmeno tra loro, figurarsi parlarne con qualcun altro. Quando ciò è accaduto abbiamo versato molte lacrime”.

Una delle riflessioni che lei fa nel suo libro è che quando c'è un discorso pubblico e una condivisione pubblica della storia che non coincide con i ricordi individuali, questi vengono sottaciuti.

“Le memorie individuali, quando non coincidono con la memoria collettiva, sono taciute e sono avvolte dal silenzio. Questo è il caso degli italiani in Istria. Nella memoria collettiva oggi non c’è nulla dell’italianità delle città istriane, non si sa nemmeno perché abbiamo oggi una minoranza che era tempo maggioranza, almeno nelle città. La memoria collettiva slovena parla di migrazioni volontarie e la parola esodo non viene mai pronunciata dagli storici sloveni”.

Lei sceglie in maniera consapevole di usarla, nel libro spiega perché. Utilizzare questo termine in un contesto sloveno è come mettere la mano in un vespaio …

“Sì, è difficilissimo. Ho già avuto molti problemi, però io ho scelto di usarla, perché quasi la totalità di un gruppo etnico è sparito dal territorio”.

Lei a un certo punto dice che queste interviste hanno ribaltato la sua prospettiva.

“Era l'inizio della mia ricerca e questa è stata la constatazione più terribile. Quando gli italiani hanno cominciato a parlare con me si finiva sempre in lacrime, non piangevano solo loro, ma piangevo anch’io. Noi sloveni, specialmente qui nel Litorale, cresciamo con il mito del fascismo e degli italiani fascisti. Era la prima volta che mi sono accorta che un popolo sempre fiero di essere vittima non ha mai riflettuto sul fatto di poter essere anche carnefice”.

Il mito nazionale sloveno dice che il suo nazionalismo è sempre stato difensivo e mai aggressivo. Poi negli anni Novanta ci sono stati i cancellati. Alla fine, tutti i nazionalismi funzionano alla stesso modo.

“Sì, anche per questo ho un po' paura. In questo libro sono stata molto sincera. Adesso vedrò come i partiti politici, non solo in Slovenia, ma anche in Italia lo useranno”.

Per il trentesimo anniversario dell'Indipendenza della Slovenia, lei scrive questo libro: è una provocatrice professoressa…

“In queste occasioni ogni nazione dovrebbe riflettere sulla sua memoria collettiva, sui suoi silenzi e soprattutto dimostrare un po' di empatia verso gli altri. Bisogna interrompere questo mito di essere stati solo vittime. Attenzione, lo fanno tutti: ogni nazione presenta se stessa come vittima”.

Se per il mondo dell’esodo la storia inizia il I maggio 1945 e per gli sloveni finisce proprio in quella data, per la comunità italiana rimasta invece ci sono cause ed effetti. L’idea è che si siano pagate le colpe del fascismo.

“La memoria degli italiani rimasti è molto differente rispetto a quella degli esuli. Per quest’ultimi il fascismo non esiste, mentre negli italiani rimasti c’è un senso di colpa e la consapevolezza della correlazione tra l’esodo e il ventennio fascista”.

Comunque, anche quelli che sono rimasti per motivi ideologici o sono venuti qui per motivi ideologici a un certo punto si sono sentiti dare dei fascisti

“Questa è la ferita più grande per gli italiani rimasti. La maggioranza di loro erano antifascisti -veramente antifascisti- ma nella memoria collettiva jugoslava vennero stigmatizzati e visti come fascisti. Questa è una ferita grandissima e penso che il silenzio deriva anche da questo trauma”.

Dal suo volume emerge che gli italiani di queste cose non parlavano nemmeno tra di loro.

“L'ambiente culturale sociale era totalmente cambiato e loro erano diventati stranieri in casa propria. Torniamo alla compatibilità delle memoria individuali e collettive dove i vincitori non lasciano il diritto alle memorie a i traumi ai vinti”.

Quello che emerge molto bene però è il vuoto che si crea e lo stacco tra le cittadine italiane della costa e i nuovi abitanti.

“I primi che arrivarono erano bilingui e si sentivano più o meno a casa loro, poi dopo il 1954 la gente che arrivava non sapeva nemmeno dove veniva, non sapevano niente di tutte queste ferite, del fascismo, dell’esodo… Per loro era solo un ambiente nuovo, così si arrivò ad una discontinuità. Lo si vede dalle feste paesane che sparirono, dai santi…”.

Cosa le hanno detto i suoi colleghi quando hanno letto questo volume. Quella del Litorale è una università nata con lo scopo di rafforzare la slovenità.

“Nel libro Io sono molto critica nei confronti di questo proposito, in una regione dove dovremmo essere orgogliosi della nostra multiculturalità. Diciamo che anche la struttura dell’università è cambiata e i miei colleghi, già da anni, seguono il mio lavoro. Ho delle colleghe e dei colleghi che fanno delle ricerche simili come Aleksij Kalc, Susanna Todorović, Neža Čebron Lipovec o anche Nives Zudič. Ci sono delle persone che vanno oltre la slovenità del territorio”.

Come si possono rimarginare le ferite aperte?

“Dobbiamo far finire il silenzio. Per uscire da questi traumi bisogna imparare ad ascoltarsi. La storia non deve essere la stessa per tutti, ma c’è bisogno di empatia”.

Stefano Lusa

Qui potete ascoltare l'audio intgrale dell'intervista