È l'antenato illustre dei dizionari che ancora usiamo, il primo grande vocabolario europeo, e un'opera che è stata fondamentale per gli scrittori italiani dei secoli passati. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca, apparso per la prima volta a Venezia nel 1612, fu preparato per fissare una "norma" che mancava, e anche se il suo aperto fiorentinismo lo ha visto al centro di accese dispute, ha rappresentato per secoli, in un'Italia politicamente e linguisticamente divisa, il più prezioso e ricco tesoro della lingua comune, oltre al modello dichiarato a cui si sono ispirati i grandi vocabolari del francese, dello spagnolo o dell'inglese.

La compilazione e la stampa della quinta edizione si sono interrotte un secolo fa, nel marzo 1923, dopo feroci discussioni sull'utilità e la produttività della Crusca: in sessant'anni si era raggiunta poco più della metà dell'opera, messa in cantiere nel 1863, e come scrisse il filologo Cesare De Lollis quel vocabolario, fondato sugli antichi autori, appariva ormai completamente avulso dalla dinamica realtà linguistica del Paese.

A raccontare premesse e conseguenze della soppressione del Vocabolario della Crusca, disposta con regio decreto dal ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, è ora una mostra documentaria allestita alla Villa di Castello, a Firenze, sede dell'Accademia.

"Quali furono le conseguenze? Che la Crusca lasciò l'attività lessicografica e si dedicò da quel momento all'edizione dei testi antichi, per ritrovare i fondamenti della lingua italiana", spiega Domenico De Martino, dantista e filologo che è tra curatori dell'esposizione. "Da lì si sviluppò l'idea che si potesse fare una storia della lingua distinta dalle altre discipline. E questa è la storia della Crusca di oggi: occuparsi della storia della lingua e del futuro dell'italiano".