"Siamo in guerra", "combattiamo una guerra contro il coronavirus", "medici e infermieri in prima linea", "personale sanitario in trincea", sono le espressioni ricorrenti usate per descrivere la pandemia nell'ambito della comunicazione politica e dell'informazione. Un linguaggio trasversale e transnazionale. In Slovenia il premier Janez Janša ha affermato che la fornitura di mascherine "è indispensabile per il Paese quanto le munizioni in tempo di guerra". Pressoché le stesse parole che ha usato in Italia il commissario all'emergenza Domenico Arcuri sostenendo che mascherine e ventilatori sono "le munizioni che ci servono per combattere questa guerra".
Ma si possono mettere sullo stesso piano l'epidemia e la guerra? "Proprio no", risponde il filosofo Umberto Galimberti. "Il problema - dice in un'intervista di questi giorni - è che la medicina aveva già assunto un lessico di guerra prima del coronavirus: "devi combattere il male", "vincerai". Ma tra questa situazione e una guerra - afferma Galimberti - c'è un abisso".
Per il coronavirus la metafora della guerra è sbagliata e insidiosa, osserva dal canto suo l'esperta di comunicazione Annamaria Testa. "Questa non è una guerra - riflette - perché non c'è, in senso proprio, un "nemico". Il virus non ci odia. Non sa neanche che esistiamo". Questa è una tragedia collettiva ma non è una guerra - scrive - " e dunque è tremendo e inaccettabile che per 'combatterla' muoiano medici e infermieri" quasi fossero soldati da mandare in battaglia.
Ma l'uso di metafore belliche è stigmatizzato da più parti, da più voci. Perché una guerra ha un fronte dove stanno alcuni, mentre qui siamo tutti responsabili in vista di un'uscita dalla crisi che ci si augura avvenga quanto prima. O ancora perché "a forza di evocare metaforicamente la guerra, ecco che la guerra arriva davvero", come sostiene il collettivo di scrittori bolognese Wu Ming.
Sulla questione interviene anche l'Accademia della Crusca. "La scelta delle metafore belliche allarmanti non è una questione di lingua, ma di decisione politica", fa notare il presidente Claudio Marazzini. E non è detto che un altro tipo di comunicazione si sarebbe rivelato altrettanto efficace, ragiona il linguista. Che ci offre en passant anche alcune interessanti considerazione sull'anglicismo 'lockdown', termine che significa letteralmente 'segregazione'. Il paradosso - spiega il professor Marazzini - sta nel fatto che i provvedimenti di isolamento e chiusura a causa di restrizioni sanitarie sono stati presi prima in Italia e solo molto tardi dagli americani e dagli inglesi, al cui vocabolario si è tuttavia voluto fare ricorso per introdurre una parola straniera prima "assolutamente ignota agli italiani, al posto delle nostre, chiare e trasparenti".

Ornella Rossetto