Foto: EPA
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Una “Via della seta”, lungo la quale però, anziché spezie e tessuti, viaggiavano rifiuti gestiti illegalmente e soldi da riciclare. È uno scenario che lo stesso procuratore capo di Trieste, Antonio De Nicolo, ha definito “sconvolgente” quello messo in luce dalle indaghi svolte dalla Guardia di Finanza di Pordenone e dalla Direzione Distrettuale Antimafia.
L’inchiesta era partita da alcuni movimenti anomali notati dalle Fiamme Gialle fra un'impresa della Repubblica Ceca e una società di Pordenone. Gli accertamenti hanno messo in luce un traffico di rottami ferrosi fra il 2013 e il 2021, senza alcun rispetto delle normative ambientali, ma anche l’emissione di fatture inesistenti, con relativa evasione fiscale e riciclaggio di centinaia di milioni di euro.
I due gruppi criminali, uno in Italia e uno in Cina, controllavano un’intera rete: le società italiane svolgevano un ruolo di intermediazione nel traffico di rottami comperati illegalmente da aziende manifatturiere che dovevano liberarsi degli scarti. Venivano emesse false fatture per acquisti inesistenti da società compiacenti con sede in Repubblica Ceca e Slovenia, creando falsi documenti di conformità, e facendo figurare il materiale come legale, per poi rivenderlo a grosse acciaierie. Le aziende ceche e slovene trasferivano poi in Cina i soldi, che venivano ripuliti e restituiti in contanti in buste di plastica, per evitare le norme anti riciclaggio, in negozi cinesi all'ingrosso di Padova e Milano.
Un meccanismo complesso, che ha stupito gli stessi inquirenti, che pensavano inizialmente di avere a che fare solo con una frode fiscale, ma ricostruito dalla Guardia di finanza che ha scoperto operazioni inesistenti per 309 milioni di euro, la metà traferita in Cina. I responsabili del traffico in Italia sono cinque persone, tre residenti in Svizzera, titolari di società con sede a Venezia, Pordenone e Treviso. In tutto gli indagati sono però poco meno di 60.
Accanto agli arresti, sono stati disposti anche sequestri preventivi su edifici e beni per un valore di 66 milioni di euro. Non è esclusa un’indagine anche su eventuali conti svizzeri che i tre residenti nella Confederazione elvetica potrebbero aver aperto per conservare altri proventi dell’attività illecita.

Alessandro Martegani