Lo SLORI, l’istituto di ricerca della comunità slovena in Italia, lo ha recentemente premiato per la sua tesi di dottorato dedicata alla Jugoslavia e la questione di Trieste. Federico Tenca Montini ha passato gli scorsi anni chiuso negli archivi di Slovenia, Croazia, Serbia ed Italia. Per farlo ha imparato lo sloveno ed il croato. Venerdì presenterà al Circolo della Stampa di Trieste gli ultimi due volumi di Acta Histriae, insieme a Gorazd Bajc, Borut Klabjan ed Urška Lampe. Ora da ricercatore all’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione continua la sua indagine archivistica.

“La strategia jugoslava per Trieste- precisa Tenca Montini- si differenziò a seconda del periodo. Inizialmente si puntò a favorire il più possibile la collaborazione con i comunisti locali. Trieste e Monfalcone erano città con una forte presenza operaia. Quando la situazione sul campo lo rese possibile, si puntò all’occupazione militare, che non arrivò così in la, com’era nei progetti jugoslavi, ma gli permise comunque di prendere Trieste, Monfalcone e Gorizia. Ciò però non bastò, perché il 9 giugno 1945, con l’Accordo di Belgrado, furono costretti a lasciare queste città”.

Nella lunga trattativa diplomatica che ne seguì quando ci fu la consapevolezza jugoslava che Trieste fosse perduta?

“Contrariamente alle supposizioni della storiografia (e questo mi ha dato un bel po’ di filo da torcere per difendere la mia tesi) questa consapevolezza venne raggiunta appena con la Nota bipartita dell’ottobre del 1953 (in cui Stati Uniti e Gran Bretagna manifestarono la propria intenzione di ritirare le proprie truppe e di lasciare all’Italia il controllo della Zona A n.d.a). Nell’estate del 1952 e ancora più marcatamente in quella del 1953 gli jugoslavi, ubriachi del successo della loro politica estera che segnava il picco della loro collaborazione con l’Occidente, pensavano di poter mantenere Trieste come territorio autonomo o vagamente legato alla Jugoslavia, in sintesi si credeva di poter arrivare al Territorio Libero di Trieste”.

Che poi, come qualcuno diceva all’epoca, si sarebbero “pappati”.

“L’idea era proprio questa e lo si dice chiaramente in alcuni documenti, tra cui uno firmato dallo stesso Tito e redatto a Brioni: un po’ alla volta, con un misto di legami politici ed economici, si sarebbe rafforzata la collaborazione con questa zona”.

Ci fu il rischio di arrivare ad un conflitto armato?

“Ci fu e anche in vari momenti. Nel 1945 fare sloggiare gli jugoslavi da Trieste e dalle altre zone fu meno pacifico rispetto a quanto viene ricordato oggi. Venne fatta una dimostrazione militare angloamericana con sovrapposizione delle truppe. Gli schieramenti si erano già incontrati a Trieste, ma ad un certo punto, prima di raggiungere un accordo sul ritiro, gli angloamericani arrivarono ben oltre Gorizia e questo fece una certa impressione a Lubiana. Kardelj (il numero uno del regime in Slovenia n.d.a) in un comunicato a Tito scrisse che a Belgrado non stavano scherzando, tanto che i diplomatici occidentali avevano già accesi i motori degli aerei e minacciavano di andarsene”.

Trieste comunque era molto più importante per gli sloveni che per gli altri.

“Questo è vero progressivamente, perché non subito tutta l’Istria venne data alla Jugoslavia. È vero che l’esercito poté rimanere in Istria, ma de jure la cosa viene a sistemarsi con il Trattato di pace”.

Si parla del confine repubblicano tra Slovenia e Croazia?

“Non ho trovato carte di questo genere. Io mi sono focalizzato più sulla diplomazia politica che sulle delimitazioni sul campo”.

Lei però ha trovato anche altre cose negli archivi. La battaglia per i confini iniziò ben prima della fine della guerra. Come si giocarono le carte i contendenti?

“Ci furono dei giri di carte abbastanza complessi, anche perché gli attori erano molti. Oggi si tende a pensare che ci fossero solo gli italiani e gli jugoslavi, ma c’erano anche i nazisti che stavano usando la nostalgia per l’Austria, poi c’erano gli interessi degli anglo-americani”.

La rivitalizzazione dell’Austria venne fatta cercando il consenso sia degli italiani sia degli sloveni.

“A seconda di chi deteneva la maggioranza in un dato territorio si davano dei contentini, delle misure che soddisfacevano le rispettive agende nazionali. Del resto, era molto semplice pacificare l’Europa giocando su un mosaico di piccoli popoli”.

C’era poi un gioco sulla questione friulana, a cui gli sloveni davano più peso della sue reale portata.

“Questa è la mia interpretazione, a giudicare dai materiali che sto vedendo nell’ambito di un progetto che sto portando avanti per conto dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione. C’erano in gioco gli interessi della Jugoslavia e della Slovenia, quelli dei comunisti e dei non comunisti, poi c’era la variabile del Friuli e della “Slavia veneta”, ovvero delle valli del Natisone abitate da una popolazione di origine slovena”.

A Lubiana si pensò che la questione friulana potesse essere un grimaldello per realizzare sogni massimalistici di espansione territoriale, magari arrivando al Tagliamento.

“Questa era una delle possibilità. Nell’estate del 1944 gli angloamericani non sfondarono la linea Gotica sull’Appennino e questo significò che c’era altro tempo a disposizione per modificare la situazione sul campo a proprio vantaggio. C’era quindi l’occasione da parte slovena di giocare eventualmente la carta friulana, ipotizzando una nuova repubblica jugoslava, una opportunità valutata anche da certi ambienti friulani, ma la loro idea non era esattamente coincidente con gli interessi della Jugoslavia. In uno dei documenti più rilevanti tra quelli che ho trovato si valutava la possibilità di ‘darsi in Friuli un ordinamento altrettanto progressista come quello jugoslavo’, ma indipendentemente da Belgrado”.

E c’erano i documenti che parlano dei difficili rapporti tra partigiani comunisti italiani e il resto della resistenza.

”Sì, ne ho trovato uno a Roma. Si tratta di un rapporto del comitato per il Veneto del Partito comunista italiano, del dicembre del 1944. In quel periodo il IX Corpo d’armata jugoslavo aveva chiesto alla Brigata Garibaldi e Natisone, in procinto di trasferirsi in territorio sloveno di li a qualche settimana, di agire contro l’Osoppo”.

E tutto si chiude con l’eccidio a Malga Porzus. Ci sono gli jugoslavi dietro a questa faccenda?

“Non ho trovato finora un collegamento diretto tra le due cose negli archivi che ho consultato. L’ultimo accenno alla Osoppo risale a gennaio. Questa è una questione su cui si specula molto e non dispero che si possa rintracciare qualcosa che possa darci qualche dato in più. Ci tengo, però, ad evidenziare che l’eccidio, nelle modalità in cui si è verificato, non ha giovato a nessuno. Quando, a dicembre, si parlò di agire contro l’Osoppo si disse di arrestare i capi e io aggiungo di incriminarli per intesa con il nemico”.

In sintesi, il problema erano i capi, mente i partigiani si potrebbero recuperare. Colpire i reazionari era un po’ l’ossessione dei vertici comunisti jugoslavi.

“E’ una azione questa che si inserisce negli stilemi della resistenza jugoslava, dove era decisivo non consentire la creazione di organismi resistenziali non comunisti”.

Quindi qualsiasi organismo resistenziale non comunista doveva essere combattuto al pari del nemico.

“Magari non proprio al pari del nemico, ma doveva essere nella condizione di non fare concorrenza ai partigiani”.

Insomma, quelli dell’Osoppo vengono visti come i combattenti monarchici in Jugoslavia.

“Sì. Nei dispacci usano le definizioni che si adoperavano per loro”.

L’azione di Porzus viene fatta dai Gap friulani, che a quel punto per conto di chi operavano?

“Questo è uno dei punti sui quali la mia ricerca necessita ancora di altri puntelli documentali, ma ho trovato alcuni riferimenti in cui Bianco, delegato del PCI Alta Italia in Jugoslavia, ma oramai dimissionario, dice di aver dato l’assenso all’integrazione dei GAP in area confinaria all’OZNA”.

Tirandola per i capelli ci può far pensare che quel gruppo agì per conto di qualcuno.

“Questo sarebbe una logica supposizione, ma contro questa interpretazione sembra deporre il fatto che un’operazione come la messa dei GAP friulani a disposizione della Jugoslavia non fosse uno scherzo dal punto di vista organizzativo, quindi sarebbe strano se non avesse lasciato delle tracce. Si tratta di completare la ricerca”.

Quell’operazione segnò e continua a segnare la memoria anche in regione.

“Sì. Per completezza c’è da dire che negli studi di Alessandra Kersevan o di Gorazd Bajc, che si è occupato dei servizi di intelligence anglo-americani emerge che all’epoca il Friuli, al confine tra i due mondi, fosse un covo di spie. Non era quindi infrequente che ci fossero depistaggi, attività di vario tipo. Sarebbe interessante capire bene tutti gli elementi che hanno contribuito all’eccidio di Porzus, nella forma in cui è avvenuto, perché nella realtà è ben difficile che un progetto si traduca puntualmente in pratica, bisogna sempre tenere conto del contesto e delle circostanze contingenti”.

Ci sono tracce che i dirigenti dell’Osoppo discutessero con la X Mas e con i nazisti?

“Sì, ho trovato delle tracce. Gli incontri tra X Mas, tedeschi e dirigenti della Osoppo, agevolati dalle autorità ecclesiastiche, del resto sono noti sia nella storiografia sia nella polemica locale. A Lubiana ho trovato le trascrizioni di queste riunioni. Gli sloveni, quindi, ne erano perfettamente a conoscenza ed erano informati dai garibaldini delle attività politiche, anche negli organismi della resistenza dei dirigenti osovani in funzione anti-slovena. La convinzione sincera, soprattutto tra personale comunista sloveno a livello inferiore, era che i capi della Osoppo fossero dei reazionari collaborazionisti”.

Non tutti i capi comunisti italiani erano soddisfatti dei progetti jugoslavi per l’area di confine.

“Il livello di preoccupazione aumentava man mano che ci si allontanava dal confine. Per Togliatti, che collaborava con i suoi ministri al governo, era un dramma. Era una tragedia non poterne parlare, perché ad un certo punto ci furono delle manifestazioni nelle città italiane per l’italianità di Trieste e avere un atteggiamento reticente su questi aspetti, che comunque avevano una presa anche sull’elettorato di sinistra e sugli operai, significava minare la propria credibilità. La possibilità di organizzare una insurrezione al confine orientale venne accarezzata solo da certi ambienti, ma non dalle parti di Togliatti. La questione qui si concentrava intorno al fatto se un Friuli comunista sarebbe dipeso o meno dalla Jugoslavia”.

Insomma, si trattava di scegliere tra il comunismo in generale o un comunismo nazionale.

“Sono i grandi dilemmi del comunismo di questa fase storica ed anche successivamente, che sono stati in parte addirittura esacerbati da direttive sovietiche contrastanti e non guasterà ricordare che proprio intorno a questi elementi si giocò l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform nel 1948”.

Stefano Lusa

Federico Tenca Montini Foto: Archivio personale
Federico Tenca Montini Foto: Archivio personale