La vita culturale della comunità slovena di Trieste nei primi anni del ‘900 passava attraverso il Narodni dom. Dell'edificio si parla soprattutto in relazione all’incendio del 13 luglio del 1920, quando la struttura fu incendiata dai fascisti, ma la sua storia inizia ben prima. L’edificio progettato da Max Fabiani ha espresso tutte le sue potenzialità dal 1904 al 1920, diventando il cuore pulsante delle attività culturali ed economiche legate alla comunità linguistica slovena, anche ad altre minoranze.
Ora che sta per ritornare alla comunità slovena, a 100 anni dall’incendio, si pensa a come utilizzare la struttura, attualmente sede della Scuola per interpreti e traduttori, e un modello potrebbe essere quello del passato: un centro polifunzionale raccontato dalla critica teatrale Bogomila Kravos nel corso dell’incontro organizzato nell’auditorium della struttura nell’ambito del mese della cultura slovena dallo Slovenski klub, con la Biblioteca nazionale slovena e le associazioni culturali Cizerouno e Tina Modotti.
La vita del Narodni dom è stata riassunta anche da immagini d’epoca proiettate, accanto a simulazioni del possibile futuro allestimento dell’edificio, all’inizio dell’incontro, che si è svolto in lingua italiana per aprire a tutta la città la Casa della cultura slovena.
Quanto accadeva in questo edificio prima del 1920 - racconta Bogomila Kravos – era veramente qualcosa di grande, a partire dal teatro, l’aspetto di cui mi occupo. Nel teatro sui riflette il sentire di un’intera città, il modo di essere e di proporsi, con il teatro si sviluppa la cultura, in particolare per la comunità slovena. L’attività del teatro inizia a Trieste già nel 1948, comprendendo che ha una grade presa sul pubblico, e la capacità di coinvolgere la comunità. Quello del Narodni Dom è stato fra l’altro il primo, e per un periodo l’unico, teatro della città, e prese anche una sua direzione, allontanandosi dal teatro di Lubiana, adattandosi a una città con delle caratteristiche diverse e particolari. Arrivavano artisti anche dal Giappone, da Parigi, e c’erano almeno 30 prime all’anno, prosa, operette e opere. Nel 1913 venne proposto di costruire un altro teatro, perché questo era troppo piccolo: era veramente un’organizzazione imponente”.
Era un centro con molte attività diverse…
“Certo, la scritta all’esterno era solo “Balkan”, di più non si poteva, ma all’interno c’era l’albergo, ma anche la Banca di risparmio e prestiti, che è stata la maggior sostenitrice e finanziatrice della costruzione dell’edificio; c’erano il ristorante, di prima e seconda classe, il caffè, anche questo di prima e seconda classe; nel seminterrato la sala da biliardo (era arrivato una maestro da Parigi), e per la ginnastica, la tipografia, e poi studi legali, appartamenti, e nel sottotetto le stanze per il personale dell’albergo. Era a tutti gli effetti una struttura polifunzionale, all’interno della quale erano presenti anche altre comunità, come quella croata, serba, ceca e slovacca”.
Secondo lei questa formula è riproponibile oggi, a pochi mesi dalla restituzione dell’edificio alla comunità slovena?
“Credo che il passato vada valorizzato, e studiato per capire come procedere: non potrà essere uguale a quello che era cento e più anni fa, ma quel modello è certamente una fonte inesauribile d’ispirazione, soprattutto se riusciremo a coinvolgere tutte le componenti della città e se inizieremo a parlarci”.

Alessandro Martegani


Foto: MMC RTV SLO
Foto: MMC RTV SLO