Se "Čefuri raus" offriva uno spaccato della vita dei primi anni a Fužine (quartiere di Lubiana costruito in epoca Jugoslava e popolato da molti immigrati provenienti dalla ex federazione, spesso beffardamente definiti con il termine "čefuri"), "Đjorđić se vrača" parte dal viaggio di Marko Đjorđić, che rientra dalla Bosnia Erzegovina alla Slovenia durante gli Europei di basket del 2018 per le codizioni precarie di suo padre. Il protagonista trova un quartiere diverso da quello che ha lasciato, scopre che i suoi amici hanno intrapreso percorsi diversi, che hanno condotto verso un'integrazione, che somiglia a un'assimilazione, o verso pesanti situazioni di disagio. Si arriva poi a una crisi, anche profonda, che parte dal dubbio su chi tifare in occasione della finale, che ha opposto Serbia e Slovenia.

Il grosso pregio di queste storie, che consentono di sorridere e riflettere allo stesso tempo: alcuni spunti di riflessione sono stati approfonditi con Goran Vojnović, il cui cognome ha la ć, uno dei segni che tendenzialmente identificavano per le persone con origini non slovene, sottolineate spesso in alcuni passaggi della storia nei quali il processo di integrazione non era sempre lineare.

Che storie sono "Čefuri raus" e "Đjorđić se vrača"?

"Cefurj Raus è la storia di 4 ragazzini di circa 18 anni, parla però di tante persone, dei problemi che in fondo, ai tempi, potevamo definire risolvibili e piccoli. Oggi, dopo dieci anni, stiamo parlando di problemi divenuti grandi, talvolta fatali: alcuni protagonisti sono confusi, persi, è difficile tornare indietro, per cui direi che oggi c'è meno speranza. La storia fa vedere dove può condurre il percorso della vita dei giovani se non ricevono qualche aiuto, se non hanno nessuno cui rivolgersi, di come i problemi divengono realtà e di come spingono tante persone in direzioni sbagliate, dato che, chiaramente, è talvolta difficile trovare soluzioni. Per cui lo spettacolo Đorđić se vrača è un testo molto più reale, parla di temi e di problemi veri. E' una monologo ma anche una commedia, che definirei "noir": il pubblico ride molto, ma ha toni anche pesanti".

Come era e come è la vita a Fužine?

"E' cambiato molto rispetto a quando ero bambino: ai tempi c'erano tanti ragazzini. Quando il quartiere è cresciuto c'erano tante famiglie giovani: a un tratto c'è stata una specie di grande pubertà. Con il collasso del paese c'erano tanti profughi. Questa era la realtà. Se guardi indietro, tutto sommato, vedi tante persone che in qualche modo hanno superato tanti problemi: era tutto intenso, dinamico, vivace, rumoroso. Eravamo giovani, cercavamo il nostro posto al sole: il paese stava nascendo, c'era nazionalismo, c'erano momenti di tensione".

"Con il tempo poi noi ragazzi siamo diventati adulti, il quartiere è invecchiato, la situazione generale del paese si è calmata: oggi è un quartiere grazioso, i prezzi degli appartamenti sono alti, ci abitano persone più anziane, certo ci sono ancora alcuni bambini ma non cosi tanti come un tempo. E' un quartiere molto verde, alcuni direbbero elitario, dove la vita familiare scorre in modo idiliaco. Per cui molto è cambiato, ci sono ancora tante persone con origini non slovene, tuttavia son prevalentemente anziane, diciamo dell'età dei miei genitori. le generazioni più giovani oggi non riescono a trovare un appartamento in modo così facile come un tempo, quando c'era l'edilizia residenziale sociale, c'erano quartieri popolari. Oggi gli appartamenti bisogna comprarli e costano tanto".

Che ruolo ha ricoperto e che ruolo ricopre lo sport?

Lo sport ha giocato un ruolo importante, c'erano tanti campetti, si giocava molto: a pallacanestro, a calcio, ma un po' tutti gli sport. Da Fužine arrivano tanti sportivi sloveni importanti, per esempio nel basket Sašo Nesterović, l'allenatore della nazionale slovena Aleksander Sekulić, nel calcio Samir Handanović. Attraverso lo sport tante persone si sono realizzate, sviluppando un'altra identità: accanto all'essere di Fužine, all'essere čefur, attraverso lo sport si diviene cestista, calciatore e cosi via".

"Questo è stato molto importante, anche se non eri così legato allo sport ma andavi comunque al campo, i giovani erano lì, erano i tempi di Micheal Jordan, cresceva l'interesse per l'NBA, c'era una cultura pre-turbo folk, legata anche ai gangster di strada, in qualche modo collegata anche al basket. Lo sport arrivava a Fužine in tutti i modi possibili e lì aveva uno status cult: se eri uno sportivo, eri visto diversamente, anche se non eri eccellente, ma già se ti allenavi regolarmente, quando andavi agli allenamenti con il borsone, eri uno sportivo, ti lasciavano in pace, in un certo senso rappresentavi il futuro".

"Tanti genitori incoraggiavano i bambini a fare sport, pensando che era un percorso sicuro per il futuro, magari anche per guadagnarsi da vivere, tanto è vero che in tanti sono riusciti nel basket, nella pallamano, nel calcio e via discorrendo. E' interessante notare che agli ultimi mondiali di pallacanestro, Fužine non ha avuto nessun giocatore ma due selezionatori: quello della Slovenia e quello della Costa d'Avorio. Siamo quindi l'unico quartiere che aveva due selezionatori ai mondiali di basket, questo spiega cosa è successo nel quartiere: non abbiamo più giocatori ma allenatori. Quei ragazzi che un tempo giocavano sono infatti cresciuti e adesso allenano gli altri. Ora però spero che qualche campione emerga dalle giovani leve".

Per che squadra si tifa a Fužine?

"Si tifa per ciò che è vivo, per ciò che è vivace. Ricordo un ragazzo che prima dei mondiali di calcio si è comprato la maglia dell'Olanda, diceva che tutti tifavano per la Serbia, per la Croazia, e allora io tiferò per l'Olanda! Così lanciava dei petardi a ogni gol dell'Olanda. Gol della Serbia, BUM! gol della Croazia, BUM! gol della Slovenia, BUM! Bene, quell'anno si sentivano i petardi anche ai gol dell'Olanda".

"All'inizio a Fužine non c'era nemmeno una società sportiva, quindi quasi tutti i ragazzi da qui andavano allo Slovan, che era il club più vicino: ci ho giocato anche io per qualche tempo. Si poteva andare anche a Kodeljevo, ma tutti andavamo allo Slovan. Di seguito c'era anche l'Olimpia, che era il club migliore, sicuramente per il basket. Per quanto riguarda le nazionali, ciascuno tifa la sua, per cui nelle competizioni europee l'ambiente è molto vivace, in ogni caso, non c'è mai stato nessun diktat di tifare per questa o quella squadra. E' sempre stata una scelta libera, d'altra parte si tifa anche per Stella Rossa, Hajduk, Partizan, Željezničar e cosi via. Era chiaro per tutti che non c'è mai stata una scelta unica, come čefuri di Fužine avevamo tanta scelta".

Atleti come Dončić o Dragić, oltre al piano sportivo, sono importanti per la vita in Slovenia?

"Penso che sono importanti, soprattutto perché danno un'immagine diversa. Per esempio atleti come Samir Handanović arrivano da Fužine, ma rappresentano la Slovenia, giocano per la Slovenia, sono generalmente ammirati, rompono gli stereotipi, secondo cui per esempio tutti i čefuri sono cattive persone, che chi gioca a pallone tra i palazzi non è un bravo ragazzo. Quando senti lo stadio di Milano scandire in coro »Samir Samir« noi siamo contenti perché Handanović è nostro, è sloveno. Un discorso simile vale anche per altri, come Luka Dončić, anche se non è cresciuto a Fužine: ha una storia diversa, il padre era un cancellato. Oggi tantissime persone indossano la sua canotta, è una stella globale, il più grande che abbiamo mai avuto: bene, il suo nome ha la ć, ha quindi la ć balcanica nell'NBA, per cui è un simbolo importante. Dimostra che non c'è niente di sbagliato nella ć, anzi va bene. Quando ero giovane la ć andava nascosta. Magari anche oggi alcuni bambini non sono contenti di averla nel cognome, ma poi vedono i compagni di scuola che orgogliosamente ce l'hanno sulle spalle per canotte di giocatori come Dončić e Dragić, per cui per per questi ragazzi la vita diviene più semplice".

"Queste storie contribuiscono al renderci consapevoli che la Slovenia non è cosi univoca. Anzi, puoi essere un illustre sloveno anche se ti chiami Dončić Dragić o Handanović, o se ti chiami Samir. Attraverso lo sport arrivano quindi messaggi importanti. Nessuno oggi mette in dubbio il fatto che Handanović è uno sportivo sloveno, che ha ricoperto un ruolo importante nel portare la Slovenia ai mondiali di calcio. Per questa ragione, chi si chiama Samir oggi si sente in modo diverso da come avrebbe potuto sentirsi venti o trenta anni fa.

Come è invece la tua esperienza in ambito sportivo?

"Posso dire che è bella: ho capito presto che non sarei diventato un campione, tuttavia ho preso tutto ciò che potevo. Certo che chi voleva diventare un grande atleta ed è arrivato a livelli alti è contento di essersi avvicinato allo sport, anche perché magari son riusciti a guadagnare bene e a fare grandi cose. Io però penso che lo sport mi ha dato il massimo che mi potesse dare: emozioni, felicità …e ancora oggi che ho 43 anni, ogni lunedì mi diverto a giocare a basket con i miei amici storici. Ricordiamo con piacere i tempi in cui ci allenavamo e giocavamo da ragazzi: forse nessuno pensava di diventare un campione, ma siamo tutti appassionati di sport, quindi giochiamo ancora assieme. Per un periodo, ho giocato anche a calcio, spero di riprendere presto. Per cui ritengo lo sport una parte importante della mia vita, fortunatamente non ho giocato così intensamente da divenire invalido per qualche infortunio grave".

"Sono contento anche di vedere i miei bambini fare sport e divertirsi: lo sport non è sempre facile. non è sempre sofferenza, non è solo competizione sfrenata, ma è soprattutto il piacere di giocare a un gioco, un modo di giocare che ti accompagna per tutta la vita, perché in campo ci si rilassa, ci si scorda di tutto ciò che succede fuori. Questo è il bello: crea legami con gli altri e tiene uniti i gruppi come il mio: i ragazzi che giocavano con me hanno intrapreso direzioni diverse e probabilmente avremmo perso i contatti, per cui la partitella del lunedì ci tiene uniti e ci fa scambiare opinioni ed esperienze, In quel modo ognuno di noi esce dalla sua bolla, si possono vedere meglio le vite di persone molto diverse da me e capire come gestisco la mia".

Antonio Saccone

Foto: Radio Capodistria/Antonio Saccone
Foto: Radio Capodistria/Antonio Saccone