Sladoled Foto: Pixabay
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Il segreto per fare un buon gelato artigianale è quello di scegliere prodotti freschi, preparati sul momento, evitando di ricorrere a scorciatoie fatte di polverine o altri surrogati. Il risultato alla fine spesso è sublime. Il buon gelato non deve essere né troppo consistente né troppo liquido; deve essere fatto di cristalli finissimi e risultare morbidissimo sulla lingua. In bocca, poi, ci deve essere una vera e propria esplosione di gusto. Fare un buon gelato è difficile come fare un buon vino o un buon articolo.

Tra un gelataio ed un giornalista non ci sono tante differenze. Per un buon pezzo ci vogliono fatti freschi, verificati, ben amalgamati, raccontati in maniera chiara e frizzante. Anche la più grande storia può essere rovinata da una narrazione noiosa o incomprensibile; mentre il pezzo può essere del tutto insignificante quando arriva tardi, dopo che tutti gli altri oramai hanno raccontato la vicenda.

Spesso i politici si arrabbiano, non capiscono da dove arrivi la notizia e perché sia uscita proprio in un determinato momento, chi sia stata la gola profonda e perché non possono fidarsi dei loro collaboratori. Tutte questioni che, ovviamente, non possono che lasciare indifferente chi scrive. Il compito del giornalista è quello di raccogliere le informazioni, verificarle e poi impastare il tutto. Nei regimi ciò non accade e se succede la faccenda si risolve seguendo la massima di Mao: “Colpirne uno per educarne cento”. In democrazia invece i giornalisti non devono preoccuparsi troppo delle arrabbiature e dei malumori che suscitano i loro pezzi, al limite la loro preoccupazione può essere quella di far equamente arrabbiare gli uni e gli altri.

Per la classe politica, o almeno per una parte di essa, il giornalismo d’un tempo era una favola. Gli “operatori dell’informazione” non erano altro che gli addetti stampa del regime. In Jugoslavia erano considerati “lavoratori sociopolitici” che insieme ai funzionari erano chiamati non solo a dare le notizie, ma anche a fornirne la loro giusta interpretazione. In un rapporto di collaborazione il politico parlava liberamente dei fatti più disparati e il “giornalista” non poteva essere che grato della tanta fiducia. Avrebbe raccontato quella storia alla sera alla moglie o ai suoi colleghi il giorno dopo, ma nei suoi pezzi ci sarebbe stato posto solo per quello che era comunemente ritenuto positivo per l’edificazione della “patria socialista”.

Nella federazione titina sino all’inizio degli anni Ottanta, prima di scrivere si aspettava che la notizia fosse battuta dalla Tanjug, che avesse il crisma dell’ufficialità e che fosse chiara la linea da seguire. Poi la tecnologia e le onde radio e televisive hanno rovinato tutto. Soprattutto in Slovenia, ci si rese conto che non era più possibile attendere. Era impossibile tacere per ore ed ore notizie come quella dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, del colpo di stato militare in Polonia o dei moti nel Kosovo. Era necessario almeno raccontare cos’era successo, visto che oramai ne parlavano tutti e che i cittadini (soprattutto quelli che vivevano a ridosso del confine) potevano seguire quello che stava accadendo anche sulle emittenti italiane o austriache.

A quasi trent’anni dalla caduta del regime e in un clima di crescente democrazia “illiberale” i mass-media, nell’area post comunista, stentano ancora trovare una propria dimensione. La domanda è sempre la stessa: essere collusi col potere, rimanere fedeli alla linea o provare a diventare veramente il quarto potere. In Ungheria ad esempio il dilemma è già sparito: chi non è in linea viene chiuso. Si tratta quindi di scegliere se continuare a restare al proprio posto o cercare di fare il mestiere così come andrebbe fatto, affrontando, senza reticenze anche gli argomenti più disparati per mettersi al servizio del lettore.

Il giornalismo della minoranza resta ostaggio del passato e i pesanti veli dell’autocensure scendono quando si parla della Comunità nazionale italiana. Anche qui non mancano paure che i rubinetti dei finanziamenti possano chiudersi. Eppure, la minoranza avrebbe bisogno del suo quarto potere che metta in luce senza reticenze dei suoi problemi e le tante contraddizioni. Sarebbe necessario narrare senza condizionamenti i travagliati rapporti con Slovenia, Croazia, Italia ed anche con le autorità locali. Per crescere ci sarebbe bisogno di raccontare cosa avviene dietro le quinte della politica minoritaria. Non si tratta di cercare scoop o scandali, ma di cambiar modo di interpretare il lavoro.

In sintesi ci vorrebbe un giornalismo che metta in risalto più i contrasti che le armonie, perché per raccontare le armonie e smussare i contrasti non servono i mass-media, ma bastano gli uffici stampa.