Foto: Radio Capodistria/Aljoša Curavić
Foto: Radio Capodistria/Aljoša Curavić

Immaginatevi i gabbiani in volo, un vociare indefinito di persone, uno scalpiccio sul selciato e, in lontananza, il flebile suono di un’armonica diatonica. Pirano è la più bella città della Slovenia. Si dice. Ma è anche la città meno slovena, secondo me. Il suo passato è preponderante, dal punto di vista architettonico, urbanistico, forse perché non è stata stravolta dai furori ideologici del dopoguerra, come lo è stata, ad esempio, la vicina Capodistria. A camminarci fra le sue mura, la forma dell’ antica cittadina sembra scollata dagli attuali contenuti. Con i suoi scorci e le sue prospettive potrebbe benissimo essere un sestiere di Venezia. Ti sembra di camminare nelle calli e nei campielli dell’ antica città lagunare.
La lingua strozzata, che percepisci fra le sue calli, è l’ italiano, strozzata nel senso che non la senti e non la vedi fra le molte insegne dei bar e dei negozi, anche se uno si aspetta di sentirla ad ogni angolo, o quanto meno di vederne le scritte.

Foto: Radio Capodistria/Aljoša Curavić
Foto: Radio Capodistria/Aljoša Curavić

Malgrado la discrepanza fra il presente, udibile, e il passato strozzato, le due facce di Pirano convivono, anche perché non ci sono altre alternative alla convivenza. Convivono parallele e indifferenti una all’ altra, come le insegne delle due foto che accompagnano questo articolo: la vecchia insegna italiana del mercato, dimenticata lì (per fortuna dico io), Rivendita tabacchi e sali, e, difronte, l’ insegna della Piranska galerija, solo in sloveno, scolpita nel marmo, a denotare il taglio inequivocabile della politica culturale della città, inequivocabilmente etnocentrica.

Foto: Radio Capodistria/Aljoša Curavić
Foto: Radio Capodistria/Aljoša Curavić

Quando visito Pirano provo una sensazione strana, un vuoto dove c’è spazio per il sogno, ma anche per l’ incubo.
Nella centralissima piazza troneggia la scritta dell’ hotel Tartini. I ' m sorry, but we don’t speak Italian, mi informò un giorno, prima della pandemia, quando l’ albergo era ancora aperto, la signora della reception.
In Morte a Venezia, Thomas Mann ci racconta che il personaggio principale del libro, il compositore Aschenbach, e' tentato dall' idea di fermarsi in una località turistica istriana, che lui definisce testualmente: “variopinta e dalla parlata incomprensibile”. Ma la storia, raccontata nella novella, prende un’altra piega. Per raccontare la parabola dell’ artista, Thomas Mann sceglie un’altra destinazione: “Quando si desiderava trasportarsi dall’ oggi al domani in un’ aura incomparabile dove si andava ? ma è chiaro: a Venezia”.
Era un’ estate umida e virulenta del 1912.