Foto: Reuters
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La risposta di Pechino alle parole del presidente americano non si è fatta attendere. La portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, nel corso del briefing quotidiano con la stampa ha detto che i giudizi di Joe Biden sono "assurdi e irresponsabili" e violano la "dignità politica della Cina, che esprime disappunto e forte opposizione". Poco prima Yang Tao, direttore generale del Dipartimento per gli Affari nordamericani e dell'Oceania del ministero degli Esteri cinese, aveva detto che durante la visita di due giorni di Blinken sono stati raggiunti accordi su cinque fronti, con l'obiettivo di "gestire efficacemente le divergenze e promuovere dialogo, scambi e cooperazione". Esono state poste le basi per una visita del ministro cinese Gang a Washignton e un incontro fra i due capi di Stato, sui quali però ci sono solo buone intenzioni più dati certi.
Ma le questioni aperte sono molte e delicate per non cercare di smorzare la tensione. Mentre la Cina accarezza l'idea di costruire un presidio militare a Cuba, gli Stati Uniti devono badare alla produzione militare. La globalizzazione ha costruito una catena di approvvigionamento produttivo che, partendo da Pechino, alimenta le fabbriche di tutto il mondo. Un'urgenza indifferibile per quelle aree ad altissimo valore aggiunto, come i settori che lavorano per la difesa. Secondo Greg Hayes, amministratore delegato di Raytheon, la multinazionale americana che sforna a getto continuo 'Patriot', 'Stinger' antiaerei a spalla e 'Javelin' anticarro, tanto per citare i prodotti diventati più noti con il conflitto in Ucraina, non c'è alternativa alla collaborazione. Senza le materie prime e i semilavorati ad alto valore aggiunto dell'economia cinese, infatti, l'industria americana degli armamenti se la vedrebbe brutta. A nessuno conviene tirare troppo la corda.
Valerio Fabbri