Foto: TV Capodistria
Foto: TV Capodistria

Va da sé che una gallina con più di qualche primavera sulle ali sia coriacea. Va quindi, tagliata a piccoli pezzi e accomodata in un tegame, possibilmente di coccio col “disfritto” (il soffritto di lardo, olio, aglio e cipolla) viene messa a “pipare” in un angolo della cucina economica con vino bianco, conserva di pomodoro e acqua. Pochi aromi, quelli dell’orto: rosmarino, salvia, santoreggia.

Ora dopo ora la carne s’intenerisce, le cartilagini cedono le loro sostanze e il sugo si ritira per diventare un intingolo colloso, dal colore bruno dorato, che si appiccica untuosamente alla pasta alla quale è destinato. Ma non basta: il vero umido, per essere buono, dev’essere mangiato il giorno dopo.

La pasta si fa impastando molte uova, anche sei-sette per un chilo di farina di frumento, meglio se di grano duro. Niente sale, casomai un cucchiaio d’olio. Lavorando vigorosamente e pazientemente l’impasto con le mani sulla spianatoia, le massaie istriane ricavano una pasta soda e liscia che viene fatta riposare per un’oretta prima di essere tirata a velo con il matterello. Infine la pasta viene tagliata in quadrati che si avvolgono di “sbiego” attorno al manico di un cucchiaio di legno: una semplice pressione delle dita dove i due apici si sormontano e il fuso è pronto.